lunedì 19 marzo 2012

Diario di una australiano data australe 19 marzo 2012


La TV australiana non è più colta e profonda della nostra. Se nelle motivazioni migratorie c’è quella di sfuggire ad una tv idiota, abbandonate il progetto o cambiate stato. Anche qui trovate programmi simili ai nostri reality; ma non "grandi fratello" o "isole dei famosi", ma molti legati al canto e al ballo.
C’è n’é uno terrificante che si chiama “The biggest loser”, nel quale due squadre di obesi si sfidano, col solo scopo di perdere il maggiore peso possibile. La formula è vincente perché mentre lo guardi è tutto un florilegio di sentimenti che ti nascono dal cuore, una gamma di sensazioni che sgorgano nel guardare un tale spettacolo: raccapriccio, disprezzo, obbrobrio, pena, compassione, empatia, tifo, coinvolgimento, dolore e ansia. A nessuno interessa chi vinca questa o quella gara, nè se chi ha perso piange per mezz’ora per avere deluso la propria squadra e la mamma a casa, ma è un reality carico di suspance e che cattura l'intersse di tanti. Infatti il non detto che sottende ad ogni gara è: “ecco, ci siamo, questo schiatta, gli prende un colpo", perchè ad ogni prova tutti sembrano sull’orlo di un collasso, respirano come mantici o, cinerei, si spiaggiano dove possono per cercare energie residue.  Ogni tanto inquadrano, per alimentare il fuoco della tensione, squadre di medici, direttamente prese dal set di I.R., pronti ad intevenire per rianimare o, nei casi più gravi, espiantare organi in diretta tv.
Imperversano le gare di cucina, stile prova del cuoco. La più gettonata è quella in cui prendono una coppia, etero o omo, che deve affannarsi a preparare una cena per uno stuolo di gente, che alle 20 precise si presenta all'uscio di casa. Naturalmente la fase di preparazione è costellata da disastri naturali, inondazioni, improvvise esplosioni di elettrodomestici, litigi ed urla, non di rado arrivano quasi alle mani, ma come per magia alle 20, sono tutti pronti e sorridenti, con una tavola imbandita in maniera regale. Oltre allo stuolo di invitati, ne arriva sempre uno speciale. A me sembra un tizio qualsiasi, ma dev’essere qualcuno molto noto, perché quando i due malcapitati lo vedono, simulano reazioni di svenimento o orgasmiche.
Anche le pubblicità sono simili alle nostre. Alcune sono geniali, altre hanno un ritmo isterico e compulsivo, con una voce che urlando ti sprona  a mollare tutto seduta stante e correre a comprare non so cosa e non so perché.
Una cosa singolare, mai vista nelle  nostre latitudini, è una serie di reclame dedicate agli anziani. Il clichè è identico: vedi un uomo, anzianotto ma in piena forma che gioca in riva al mare con il cane / un nipotino, lancia bastoni / solleva e getta in aria il pargolo. Poi si gira verso la telecamera e con aria seria ma serena dice: “Hai già pensato alle spese per il tuo funerale?”, poi una voce fuori campo ti propone, per la modica cifra di 3 dollari alla settimana, una polizza ad hoc. Ce ne sono alcune che offrono ai parenti anche un premio di 15.000 dollari se ti schianti in un incidente; tutte specificano che non è richiesta visita medica e che nessuna domanda sarà respinta. Non ho niente contro questa iniziativa, di per se’ anche utile, ma in un film di media lunghezza questo tipo di spot capita una decina di volte, assumendo fastidiose connotazioni iettatorie.
E’ finita la serie di Montalbano, appuntamento familiare della domenica sera. Le ultime puntate non erano un granché, ma trattasi pur sempre di un film in italiano, quindi con un valore aggiunto notevole. La sigla parte con una panoramica di un paese della Sicilia, immagini molto suggestive di case che si affacciano su un mare incantevole. Ricordo che la prima volta che l’ho vista ho pensato: “Come si fa a vivere in quelle case così tutte attaccate, senza spazio, tutti ammucchiati uno sull’altro?”. Detto da uno che fino a ieri stava nel centro storico di Genova, suona abbastanza preoccupante. Solo che stando qui, dove le case sono monofamiliari, tutte con il proprio giardino e circondate dal verde, sembra impossibile vivere così tanti in così poca terra.
A onorare il patrio suolo resta solo al mercoledì ore pasti “Commissario Rex - Roma”, una bieca serie televisiva in cui il cane è alle dirette dipendenze di un poliziotto romano. La domanda sorge spontanea: eravamo così sbavanti per il prode quadrupede, da farci apposta una versione nazionale? Solo a noi o la povera bestia si è fatto padroni in mezza Europa? Ma poi, perchè? Comunque anche questa serie volge all’ultima puntata. Peccato non averne vista neppure una.
Una doverosa nota di merito per la TV australiana. Qui in nessun canale trovi donnine inabili al lavoro e a qualsiasi forma artistica, il cui unico compito sembra quello di agitarsi, mezze svestite, per mettere in mostra la propria mercanzia fisica. Uno spettacolo che da tempo anche da noi è diventato noioso e deprimente. Qui trovi donne a condurre telegiornali, molte giornaliste, ma la velina oca manca.

Leggo che in Italia si sta discutendo di introdurre a scuola l’inno nazionale mattutino. Qui in Australia hanno diversi sistemi per incentivare l’amor patrio e animare il nazional sentimento, già di per sé enormemente sviluppato. Modi per ovviare all’handicap di una storia ridotta al minimo, anche con qualche ombra di troppo, e di composizioni etniche varie e non facilmente omologabili. Ad esempio ieri si celebrava San Patrizio, patrono degli Irlandesi, in una nazione a prevalenza inglese, i quali non hanno proprio trascorsi idilliaci con i festeggianti.
Aprendo una parentesi, sono per altro molto bravi nell’esaltare quel poco che hanno. In una nazione che ha praticamente due secoli di storia, dove se indaghi un pochetto rischi di scoprire di discendere da qualche galeotto, quello che hanno sono bravissimi a tirarlo a lucido e metterlo in mostra. Ad esempio sotto casa abbiamo il War Memorial, dove si celebrano i morti australiani in guerra; una mostra enorme in cui hanno raccolto materiali e ricostruito scenari di tutte le guerre in cui hanno combattuto. A onor del vero in moltissime guerre sono stati usati solo come carne da macello per non sacrificare giovani inglesi; malgrado ne siano consapevoli, celebrano loro e la nazione per cui si sono sacrificati nel miglior modo possibile.
Chiusa parentesi.
Non potendo quindi attingere alla storia romana o ad un patrimonio politico e religioso comune, hanno dovuto aguzzare l’ingegno. "Non posso celebrare la gloria del passato? Celebriamo quella del presente". Si sono quindi inventati il “Tesoro vivente dell’Australia”, una lista di 100 persone vive, che sono ritenute preziose per l’Australia, perché contribuiscono a farla crescere e stimare. La lista è stata recentemente aggiornata, perchè ogni tanto ne secca qualcuno e occorre trovare nuovi candidati.
Quando ne leggevo pensavo alle persone  comunemente citate sui rotocalchi e tg italiani: Ruby, Minetti, Lele Mora, tronisti e puttanieri, gente insomma che incita i giovani a crederci sempre e scommettere sul merito e l’impegno.
Non sono poi tutti professori o intelligentoni. Andate a leggere la lista su http://en.wikipedia.org/wiki/Australian_Living_Treasures potete trovarci piloti di formula uno, maestri, politici aborigeni, campioni olimpionici, musicisti, addestratori di cavalli; tra i noti figurano Nicole Kidman, Kylie Minogue, new entry con Olivia Newton - John per il suo impegno personale e sociale nella lotta contro il cancro e Russel Crowe (manca Mel Gibson, forse perché non sempre e’ del tutto centrato).
Due cose cose interessanti in questa iniziativa. La prima è additare ai giovani e meno giovani degli esempi di spessore e tutto sommato per tutte le tasche. La seconda è l'idea che il tesoro dell’Australia non è qualcosa che arriva dal passato, che è successa ieri, ma che conta il presente, l’oggi, quanto riusciamo a fare qui e ora, giustappunto finché siam vivi.
Non costa molto e forse potrebbe essere più produttivo di iniziative formali come l’inno nazionale in tutte le scuole del Regno.

venerdì 16 marzo 2012

Diario dell’australiano Data australe 16 marzo 2012

Parte prima
Aggiornamento della situazione
Stiamo tutti bene. Punto primo, di una certa importanza.
Punto secondo: dopo due mesi e qualche, da ieri abbiamo smesso, quasi tutti, di dormire per terra. Infatti è arrivato il container e ci hanno montato i letti ieri. Sono soddisfazioni.
Punto terzo: la Noemi va a scuola regolarmente e con una certa soddisfazione. Oggi raccontava di un bambino che non conosce, "quello che ha gli occhi sottili, che sembrano chiusi (= cinese), solo una volta abbiamo riso insieme e che, oggi ha tolto i bastoncini a  uno che me li stava tirando. Mi amerà, ma io non lo conosco”. La piccola belva, che ha sempre avuto una parlata abbondante ed evoluta, ha sofferto non poco nello scoprirsi non in grado di comunicare con gli altri. Ma tiene il conto della gente con cui ride insieme, quindi vuol dire che ha trovato altre strade.
Daniel sembra integratissimo a scuola e parlare con tutti. Come faccia è un mistero, ma così sembra. Racconta di giochi con connessa trama, per cui comunica.
Siamo stati all’incontro con le maestre. Sembravano molto contente, anzi quasi entusiaste di averli in classe e sembrava che dicessero che il loro inglese  sta migliorando di giorno in giorno. Hanno anche raccontato episodi, a conferma delle loro affermazioni. Comunque io ero molto contento di come dicevano le cose. La Maru che capiva anche quello che dicevano, pure. Quindi bene.
La Anna viaggia su altre dimensioni e con una scuola organizzata molto diversamente dalla nostra. Dopo alcune difficoltà iniziali, mi sembra molto più a suo agio e con molte meno menate sulla lingua. Ha già presentato un compito a casa, una ricerca sui globuli bianchi che doveva essere fatta in maniera multimediale e comprensibile per un ragazzino di 10 anni. A noi è piaciuta molto, vedremo se anche al prof.
Sempre lei ha fatto il pesto. Un successone. Abbiamo seguito la ricetta originale del  consorzio del pesto, gente molto precisa e seria. Solo che abbiamo dovuto elaborarla leggermente per alcune difficoltà logistiche. Innanzitutto qui il pesto ha foglie, grandi circa 3 volte le nostre, tendenti alla salvia per dimensioni, ma per fortuna non per gusto. Inoltre non abbiamo trovato pinoli (che intanto mio suocero dice che quelli cinesi sono insapori), quindi abbiamo ripiegato sulle noci (anche queste, ahimè, dal sapore abbastanza latitante). Le condizioni non ci permettono di fare gli schizzinosi. Al secondo giro, quando abbiamo usato l’olio di Lucinasco (IM), gentilmente offerto da Giuseppe Massili, era una delizia. Quella sera a cena abbiamo fatto le troffie (sempre Giuseppe) al pesto e sorseggiato Valpolicella (regalo della zia Manu). Sembrava di essere a Genova.
Punto quarto: ho ricevuto la visita di fr. Maurizio da Genova, venuto a Sydney a predicare alla comunità italiana. E’ stato molto caro a farsi le tre ore e mezza di macchina per venire fin da me. Abbiamo fatto un giretto per Canberra e l’ho portato a pranzo da Filomena, una anziana signora di Potenza che coi figli gestisce una rosticceria in centro. La poveretta a vedere un frate italiano nel suo negozio, era raggiante e si è messa a raccontare di padre Pio, di madonne di Lourdes e devozioni emigrate con lei in Australia. Insomma le abbiamo fatto un regalone.
Punto quinto: fra Maurizio recava missive dall’Italia, tra cui 2 bambole per Noemi, due Topolino  per  Daniel, settimane enigmistiche per tutti. Inoltre, cosa di fondamentale importanza, Tex Willer e Nathan Never per il sottoscritto, pazientemente raccolti da mio fratello Roberto. Poter finire qui una storia iniziata e data per persa 3 mesi fa in Italia, è stata una sensazione non raccontabile.  I due Nathan Never finiranno a Sydney per allietare anche il cognato Cristiano.
Noi due grandi stiamo bene, la Maru lavora e io studio, ma di questo parleremo un’altra volta.
Parte seconda
La mia personale esplorazione delle abitudini religiose del luogo si è arricchita di una nuova esperienza. Causa improvviso impegno del suocero, abbiamo ripiegato sulla messa in latino delle 11 alla chiesa di Ss. Pietro e Paolo. Che fosse in latino non mi sembrava essere cosa di per sé negativa, visto che il livello di comprensione generale non poteva che migliorare.
Arrivati alla Parrocchia un occhio attento e leggermente più sveglio avrebbe tratto indizi utili a farci alzare i tacchi seduta stante.
Primo indizio: nella stanza adiacente alla parrocchia c’era un sacco di gente, con una abbondanza di popolazione femminile, tutta con il capo coperto da velette. Signore anziane, donne mature ma anche ragazzette di 10 anni, tutti con i loro copricapi di pizzo.
Secondo indizio: nessuno straniero presente in Chiesa, ma apparentemente solo australiani. Forse avessimo avuto la pelle più scura, stile calabresi, avremmo potuto avere qualche noia. Forse…
Terzo indizio: in chiesa vigeva una disciplina marziale. Ognuno si muoveva con militare compostezza, facendo genuflessione quando richiesto, inchini e segno di croce, al posto e momento giusto. Leggermente duri come bacchi, ma molto precisi
Quarto indizio: i chierichetti erano giovanottoni di circa 30 anni, di cui uno biondo crucco, che non vuol dire nulla, però..
Noi entrando prendiamo i soliti fogli plastificati, con la messa in inglese visto che stavano giusto all’ingresso della chiesa. Un tizio, barbuto e dall’aria vagamente contadina, gentilmente ce li ha  presi e immediatamente sostituiti quelli giusti per la messa in latino. 
Da quando sono qui, leggo sempre il rito prima della messa, con quello che devo dire, come uno studente che cerchi affannosamente di ripassare nei minuti prima dell’interrogazione. Solo allora scopro che quella non era la “messa” in latino, ma la messa di San Pio V, quella del 1570, quella di Lefebvre per intenderci.
Ora io non sono proprio un novellino in fatto di messe, ma questa proprio mi mancava. Avevo anche sentito decantare questa messa come una esperienza molto bella, anzi in grado di comunicare una “trascendenza” e un “mistico mistero”, come nessun altra. Spinto quindi da interesse e curiosità, mi sono messo di buzzo buono per partecipare come si deve.
Ora, partecipare è una parola grossa, diciamo ascoltare. Già per arrivare al segno della croce ce n’è voluto del bello e del buono, con la cantoria (4 persone, vestite di nero) che cantavano salmi, non immediatamente riconducibili a quanto stava succedendo. Inoltre il prete si lanciava in un soliloquio perpetuo con il buon Dio, spalle alla gente, bisbigliando formule inudibili ai più. Qualcosa a cui è difficile partecipare, perché il tutto si riduce a continui esercizi di ginnastica: alzarsi, inginocchiarsi (spesso e per tempi lunghi), seduti, e via da capo, tutto velocemente e  senza motivi apparenti. Ogni volta che iniziava un canto il prete approfittava per buttarsi avanti con la cerimonia, come un nuotatore che si immerge e non puoi sapere in che punto finirà per riemergere, e seminare il sottoscritto, che cercava di seguire il dramma sul foglietto,. Intanto i due chiericoni, come i corazzieri al Quirinale, nemmeno si grattavano per non disturbare il sacrale mistero.
A dire il vero ci sono stati due eventi  turbativi, che segnalo per dovere di cronaca . Durante il Sanctus, mentre il prete stava già galoppando silente nel lunghissimo e muto Canone Romano, a un certo punto il canto si è interrotto improvvisamente. La cosa era strana, tanto che anche il prete è riemerso dal suo biascichio, per chiedere, sempre sottovoce, lumi al chiericone nazi-tendente. Era successo che una dei quattro del coro, per esattezza una signora nero-vestita, stava vomitando, mentre gli altri le tenevano la testa e un contenitore in cui poterlo fare con una certa decenza.
Il secondo episodio è il classico squillo di cellulare. Solo che è squillato due volte alla stessa persona, la quale entrambe le volte si è ben guardata dal togliere la suoneria o spegnere. Solo usciva un attimo, rientrava e poi da capo.
Che dire. Il tutto è durato quasi due ore. Ma non è questo il punto. Per carità magari questi fedeli usciti di lì spostano le montagne con la fede, fanno atti di carità eroica, perché questa messa li ricarica e rigenera. 
Parlando per me, se vai ad un concerto è meglio, oppure a teatro dove puoi assistere a qualcosa, anche di più interessante.  Se la cosa più vicina alla partecipazione attiva e alla nostra umanità è il vomito della corista, siamo proprio messi bene. Poi certo c'è, per chi ci crede, un effetto a prescinde, ma se si può pregare mettendoci del nostro, cervello compreso, mi sembra meglio.
Esperimento da non ripetere. Se ho bisogno di tempo vuoto, in cui la mente possa pensare ai casi suoi, posso fare un giro in bici o camminare  nella riserva. Se mi interessa il “mistero”, mistico o trascendentale che sia, ci sono fior di romanzi e libri gialli. Per me pregare è altra cosa. Amen. 

lunedì 5 marzo 2012

In morte di Lucio Dalla


Da lontano ho seguito il funerale di Lucio Dalla e ho sentito le eco delle polemiche successive.
Se c’è una cifra riconosco a Dalla è la sua libertà, il suo essere “a modo mio”, senza sottostare ad etichette o indossare qualche tipo di casacca. Credente, ma non inquadrabile in staccionate e visioni strette, di sinistra ma senza essere arruolabile come comunista. Un personaggio libero, non contagiato dall’ideologia, che come un veleno corrode il confronto e rende impossibile l’incontro. I tanti che si sono riuniti per salutarlo, erano lì perché toccati da qualcosa di suo, capace com’era di andare oltre gli schemi e le prese di posizioni politiche, sociali e generazionali.
Forse non si è mai dichiarato omosessuale perché sarebbe stata una ennesima etichetta, in cui stava stretto e perché  ogni etichetta finisce per dividere.
Trovo, in questo contesto, provinciali e meschine, le considerazioni e le polemiche di queste ore. Dalla non ha mai voluto dichiarare la sua omosessualità. Perché? Per ipocrisia? Per paura? Non credo. Tutta la sua storia testimonia un coraggio e una capacità di esporsi  senza timore dell’altrui giudizio. Non si è dichiarato perché non ha voluto farlo, non ha ritenuto di dover mettere in piazza questa parte di sé, non ha ritenuto che togliesse o aggiungesse nulla al suo essere artista. Non è stata una dimenticanza, ma una volontà precisa.
Una volontà che forse andava rispettata. Anche Marco  Alemanno, nel suo toccante saluto, non ha voluto fare accenno alla vita sentimentale di Lucio, al loro rapporto, rispettando quello che Lucio aveva voluto per sé e per lui.
In questo pudore avremmo potuto dare tutti un colpo d’ala, elevarci un attimo dalle nostre quotidiane miserie e ritrovarci in una umanità reciprocamente riconosciuta e rispettata.
Invece abbiamo trovato l’ennesimo modo per fare polemica, per dare dell’ipocrita all’uno e all’altro, con l’aria di quelli che devono insegnare  a tutti come si deve fare, che hanno in tasca la verità.
Bene ha fatto il parroco a far parlare Marco, a fargli salutare Dalla a nome di tutti, lui la persona che più lo conosceva e amava.  
Forse meno bene ha fatto la Chiesa nel cercare di appropriarsi di Lucio, del “cattolico”, un’altra etichetta che presuppone un noi e un loro, una ennesima divisione. Certamente male hanno fatto tutti quelli che in nome di una supposta verità e giustizia, hanno distribuito etichette e dispensato patenti di correttezza morale.
Forse sarebbe stato meglio stare zitti, accettare quello che ci ha dato, ha detto e taciuto, tutti insieme intorno all’altare e al suo corpo, credenti e atei, etero e omosessuali, potenti e ultimi del mondo. Così, uniti nel silenzio e nella riconoscenza. Forse ci troveremmo oggi più uomini e più uniti, magari capaci insieme di costruire qualcosa di nuovo e di diverso per il domani.

domenica 4 marzo 2012

Diario dell’australiano Data australe 4 marzo 2010


Ieri mattina abbiamo celebrato il nostro funerale di famiglia a Lucio Dalla. Abbiamo collegato il pc alla televisione e l’audio allo stereo e ci siano rivisti per intero il concerto del primo maggio, in cui lui e De Gregori hanno cantato uno o due anni fa. Un’oretta molto bella e carica di nostalgia, in compagnia di un’Italia che ci manca. I bambini non hanno capito tutto, ma nel complesso hanno apprezzato.
Continuano le epiche imprese della Noemi a scuola.  La poverina fa un po’ fatica, anche se si registrano passi in avanti. Lei e Daniel vanno in una scuola per bambini stranieri in cui puntano moltissimo sull’insegnamento della lingua. Nella loro classe sono tutti asiatici (Daniel ha anche un compagno russo) e qualche africano.  Questa presenza multietnica deve aver generato qualche confusione nella sua piccola testolina, in quanto a cena se n’è uscita dicendo: “mi sa che qui in Australia, ci siamo solo noi di bianchi!”.
Io vado regolarmente a scuola, nella mia classe multietnica come la sua . Ormai a ricreazione facciamo gruppo fisso con una egiziana, un coreano, una boliviana; siamo in 4 di 4 continenti diversi e abitiamo nel quinto. Bizzarro.
Ho scoperto qualche giorno fa la presenza di altri 3 italiani: di Spezia (ma in procinto di rientrare),  di Torino e di Roma. Cerco di non frequentarli troppo, anche se sono molto simpatici, essendo la mattina l’unico momento che ho per farfugliare qualcosa in inglese. Cercherò di arrivare prima, per poter stare un po’ anche con loro.
Oggi dopo 8 giorni di pioggia continua, è uscito il sole. Una pioggia mai vista, non tanto per intensità, quanto per durata. Ogni lembo di terra è intriso d’acqua e tutto è un acquitrino fastidiosissimo. Da domani si ritorna in bicicletta e a poter stendere lavatrici.
L’Australia ha un serio problema con le alluvioni, specie al Nord Est nello stato del Queensland. Ma quest’anno è arrivata così tanta acqua che anche nei d’intorni di Canberra hanno avuto esondazioni e allagamenti in ogni dove. Sono comunque molto ben organizzati e fanno gruppo contro queste calamità, facendosi carico dei disagi di tutti.
In questi giorni di macchina forzata ho apprezzato alcune soluzioni intelligenti adottate dall’astuto australiano quando si mette al volante.
La prima genialata riguarda i parcheggi dei grandi magazzini. Avete presente quei lunghi garage, in cui scruti l’orizzonte in cerca di un parcheggio, ti aggiri come Teseo nel dedalo, tra muri di macchine immobili, nella speranza di trovare un buco dove poter  lasciare la tua? Giri e giri, imboccando anche corsie contromano, accelerando quando ti sembra che laggiù, dietro quel SUV, ci sia un buco, per poi scoprire che è una Smart, macchina maledetta, come la 500, capace di trarti in inganno come i miraggi nel deserto.

Il pratico australiano ha molto meno tempo da perdere di noi. Ha quindi ideato un sistema semplice  ma perfetto per segnalare parcheggi vuoti, a scanso di miraggi e Smart. Sopra ogni parcheggio c’è una cella fotoelettrica e sulla corsia delle luci. Se il parcheggio è vuoto la luce è verde, se occupato rossa. Appena tu arrivi ti basta una rapidissima occhiata per vedere se ci siano posti vuoti, anche da lontano. Non credo che il sistema sia costato una fortuna, ma è un sistema geniale e immediato.
In uno dei miei tanti deliri di onnipotenza, ho spesso detto che se fossi il sindaco di Genova, metterei dei balzelli a quelli che in città usano la macchina per  trasportare solo se stessi. Se vi mettete in un qualsiasi, trafficato, incrocio cittadino potete verificare che la maggior parte delle macchine hanno effettivamente un solo passeggero a bordo. Chissà magari hanno già lasciato moglie e i loro 5 figli a scuola, oppure soffrono di agorafobia oppure pensano che gli autobus puzzino e andare a piedi stanchi. Chissà?! Nel dubbio io li tasserei tutti, così per non fare prigionieri.
Qui in Australia sono invece più gentili, ma hanno escogitato un sistema per scoraggiare l’uso inopportuno della macchina. Invece di tassarli, premiano le aggregazioni di gente sullo stesso veicolo: se in una macchina sono presenti almeno 3 persone, questa non paga il parcheggio in centro. Senti meno l’odore del sangue, ma è una idea interessante.
Credo che sia così, almeno il cartello non si presta ad altro tipo di interpretazione. Ho provato a seguire i cartelli ma mi sono perso e non ho trovato il posteggio. Ma questi posteggi esistono, ho trovato gli stessi cartelli anche in altri quartieri. Sono curioso di capire come facciano a verificare l’effettiva presenza di 3 persone a bordo. Indagherò.
In una città come Genova, chiunque pur di non pagare il posteggio giornaliero, recluterebbe ignari passanti, organizzerebbe viaggi in centro con parenti anche di terzo grado. Pur di condividere la strada verso il lavoro si ricomporrebbero annosi dissidi familiari o si chiuderebbero immediatamente cause civili e penali tra vicini di casa. Non è un sistema che costa molto, ma porterebbe significativi vantaggi per il traffico delle nostre città.
Chiudo queste righe segnalando un grave problema che affligge una parte significativa della popolazione locale: ci sono tante persone grasse. Non quei grassi che mettono allegria, che hanno scritto in fronte “me ne fotto”, mangio e mi godo la vita, sfidando stupide leggi sociali che vorrebbero tutti tristi anoressici. Non le donne o uomini sovrappeso, come si possono vedere da noi, ma proprio persone obese, molto obese, inequivocabilmente obese, paradigma dell’obesità.
Sono persone anche giovani, alcune madri con figli piccoli, con evidenti problemi di deambulazione, che si  muovono con una goffaggine che tradisce sofferenza. Persone che ti preoccupano e che ti viene voglia di fermar, per chiedere come abbiano fatto a ridursi così, spingerli o obbligarli a fare qualcosa per star meglio e non morire giovani .
Il fenomeno è talmente evidente e diffuso che ho chiesto alla mia prof le ragioni di una tale epidemia. Lei ha detto che è una predisposizione che colpisce gli anglosassoni (americani inclusi) e alcune popolazioni dell’africa. Poi ha ammesso che è anche un problema di alimentazione: il famoso junk food, figlio diretto del fast food.
 Non so nulla delle predisposizioni anglosassoni nei confronti dell’obesità, ma sottoscrivo la tendenza a nutrirsi male e in maniera assolutamente sbagliata. In ogni dove trovi pacchetti di chips e salatini vari, per non parlare di Mac Donald e similari, quando non ti cucini salsicce e hot dog direttamente tu. Addirittura in Nuova Zelanda abbiamo trovato negozi (nemmeno minuscoli) che vendevano solo sacchetti di patatine, nachos e pop corn.
La mia prof dice che sono in corso diverse campagne di sensibilizzazione in favore di slow food e del mangiare sano, anche se non ne ho mai visto. Non credo che sia un problema di informazione: nei supermercati  sono evidenti i cartelli che spingono a consumare meno “fat”, ed è molto pubblicizzato il fat free o il quasi free. 
Certo esiste un problema di educazione. Sono stato al cinema con Daniel e prima della proiezione, anche qui ti propinano la solita sequenza di pubblicità e trailer. A un certo punto è passato un invito a comprare  popcorn e coca cola dall’apposito stand vicino alla biglietteria. La reclame  si concludeva con l’emblematica frase “nel buio del cinema nessuno ti vede”.  Allora lo sai, bastardo.
Anche nei cessi dei centri commerciali trovi prove evidenti che le informazioni le hanno. Non parlo di niente di schifoso, quanto di simpatici manifesti appesi in ogni dove che propongono un rimedio sicuro all’intossicazione da cibo. Anche le immagini sono eloquenti della gravità della, spero non quotidiana, alimentazione dell’australiano medio.
Se sapete far da mangiare bene, approfondite le vostre conoscenze. C’è un continente da colonizzare con una buona cucina e una sana alimentazione mediterranea