mercoledì 26 settembre 2012

Diario dell'australiano - Data australe 26 settembre 2012


Al malato spetta l'onere della prova. E' cosi' fin dalla tenera infanzia, quando devi faticosamente convincere tua madre che no, non stai bleffando, non stai fingendo per startene a letto. La situazione non migliora crescendo. Quando telefoni al lavoro per comunicare indisposizione, convivi con il tarlo di non essere creduto e che chiunque, colleghi o superiori, si sentano autorizzati a mettere in dubbio la tua onesta'. Non aiuta l'italico vezzo di frodare a destra e a manca, approfittandosi di leggi nate per tutelare i diritti di chi malato o invalido lo e' davvero.
Il probelma di fondo e' che non si puo' far sperimentare agli altri cosa si senta, quanto ti scoppi la testa o l'intensita' di una nausea. Si puo' al limite rendere l'idea, accennare, ma non si puo' trovare una formula in grado far provare cosa si senta. Anzi spesso nel cercare di abbattere questo muro di incredulita' rischi di perdere la calma, esageri i sintomi e il malessere, diventando un testimone non credibile.
Per ovviare a questo empasse la pletora degli scettici sani ha inventanto lo strumento definitivo, la cartina tornasole per stanare i truffatori e concedere il giusto riposo ai malati: il termometro. Il perfido strumento e' evoluto nel tempo, ma conserva la sua capacita' di certificare la malattia, spegnere ogni diatriba e zittire perfino la piu' scettica delle madri. Ricordo ancora con emozione, il momento in cui fissavi il diabolico bastoncino, facendolo basculare per stanare il mercurio, elemento dalla natura timida e mutevole; se la barra bluastra raggiungeva i 37 gradi era fatta. Quella era la soglia della salvezza, il numero di fronte al quale i genitori, salvo alcuni spietati esemplari, concedevano il placet alla sospirata vacanza. Siccome gli alunni si tramandavano tattiche e modi per fregare anche lo scientifico strumento, la mamma di solito procedeva anche ad una verifica manuale, posandoti una mano sulla fronte o sul collo, ma si trattava di un controllo di routine, perche' la scienza era dalla tua parte, faceva fede, al di la' delle autodichiarazioni o gli sforzi per comunicare l'incomunicabile malessere.
Esiste pero' una parte, forse non piccola, di popolazione a cui la febbre non viene, patetici figuri che per arrivare agli agognati 37 gradi devono piombare in uno stato di precoma, con dolori articolari paragonabili a fratture multiple.
Per questi sfortunati esseri, il riposo del malato e' un traguardo da conquistare con fatica e a caro prezzo. Debilitati dalla malattia e traditi dalla scienza, i malcapitati si trovano circondati da commenti sarcastici, allusioni o vere proprie accuse di frode o almeno di millantare un malessere dai piu' sopportabile, se meno pigri e piu' attibuti-muniti. Se poi il tapino appartiene al genere maschil coniugato, occorre difendere strenuamente il proprio stato, come fosse un bene da proteggere, contro uno scetticismo che farebbe impallidire pure Odifreddi.
Quando poi sei riuscito, stando abbarbicato alle coperte come una cozza allo scoglio, a sdognare la tua malattia, vieni abbandonato in camera come un lebbroso, simile ai panni sporchi nell'armadio quando hai ospiti in casa. Relegato in camera, passano le ore senza che nessuno venga a sincerarsi se ancora vivi, se necessiti di conforto morale o materiale oppure la pratica viene sbrigata con malcelato fastidio, quasi non si volesse essere complici di un inganno morale e una vera e propria truffa ai danni dell'INPS. Tu poi devi mantenere un atteggiamento consono al tuo stato di infermita', senza indulgere in comportamenti o atti, capaci di generare sospetto o confermarlo, quali leggere o guardare la televisione. Dormire e' guardato con fastidio, ma tollerato.
Forse si tratta di una tattica per spronarti, per invitarti a trovare la forze per combattere la malattia e tornare velocemente tra i deambulanti. Risorse che devi tassativamente trovarti da solo. Per questo vieni privato di ogni conforto, isolato senza inconraggiamenti o beni materiali atti a darti dall'esterno quelle energie, che devi invece autoprodurre come un anticorpo.
Le mogli devono credere molto in questa stretegia educativa, perche' esseri altrimenti dolci e comprensivi, anzi talvolta sposate proprio in virtu' di queste caratteristiche, si trasformano in implacabili aguzzini, carcerieri che ti portano il cibo come un rancio, con la passione di chi sta accudendo da anni un nonno in stato vegetativo.
Di fatto occorre ammettere che la tattica funziona, perche' alla fine e' un tale rompimento di balle che ti sollevi ancora convelescente e ti dichiari guarito, sano e perfettamente in grado di uscire dalla stanza e possibilmente anche di casa. Resta il fatto che ti sei rovinato la malattia e ti resta il dubbio che saresti guarito lo stesso anche con qualche coccola in piu'.

In questi giorni sono stato malato. Niente di grave ma mal di gola, raffreddore e influenza. Naturalmente a me la febbre non arriva nemmeno se prego. Questa mia ultima malattia pero' ha portato una considerevole novita': la Maru mi ha insultato solo una volta. Anzi si e' trattato solo una botta di “smidollato” passeggera, quasi impercettibile, parente povera di ben altri abituali trattamenti.
A questo proposito colgo l'occasione per affermare chiaramente e pubblicamente, qui e ora, che amo mia moglie. La Maru mi ha fatto notare che sarebbe carino che lo scrivessi nel diario, visto che non l'ho mai detto, per cui apro lo spazio “dedica” e lo dico.
Non che la cosa mi turbi, essendo vero. Ho pero' atteso diversi numeri del diario prima di scriverlo perche' trattasi di cosa molto delicata, che richiede un “Sitz im Leben”, un contesto particolare, per non rischiare fraintendimenti o pescare rogne. Non e' frase che si possa impunemente incollare in calce ad ogni discorso, come le facezie sul tempo. Metti che stai parlando di Hitler o di stress sul lavoro, di animali selvaggi, di aborigeni o di galline: partendo con la dischiarazione d'amore per tua moglie, presteresti il fianco ad una facile gioco di assonanze e accostamenti terribili. Il discorso finirebbe fuori dal controllo dello scrivente con effetti contrari e non desiderati.
Non sono uno solito lanciarsi in dichiarazioni amorose, sono anzi abbastanza allergico anche ai nomignoli di uso quotidiano, quali “tesoro, amore, cara” che trovo equivoci, buoni sia come ambasciatori di un sentimento vivo e forte sia come cerotti su un muro irrimediabilmente crepato. So pero' che la Marussia e' lei, e' la persona che cercavo e con cui amo stare, la compagna di tante avventure meravigliose e di quelle che ancora dovremo intramprendere. La persona che ho trovato e non intendo lasciare, “l'altra per me” che ci rende entrambi migliori e capaci di far crescere al meglio tre figli meravigliosi. Quella che scelgo ogni giorno, tranne quando sono malato, perche' li' diventa meno simpatica. Sempre stimolante, ma meno simpatica.

Anche Daniel ha preso l'award. Lo ha ritirato in contumacia, in quanto era assente per malattia alla consegna pubblica e una volta ricevuto in classe, lo ha immediatamente perso. L'ho ritrovato io dopo tre giorni, stamattina nella lunch box, mezzo unto. Recita piu' o meno che si e' inserito beautifully nella classe, lavora hard e contribuisce alle class discussion. Finisce col dire che e' un piacere to have you in our class. Mici male!
Mio suocero dice di tenere tutti 'sti award perche' hanno un peso nella futura possibilita' di ammissione in scuole piu' prestigiose, insieme a tutti i voti e le pagelle di questi anni. Tanto li teniamo perche' son bei ricordi, poi vedremo.

Qui comincia la primavera, in maniera progressiva ma inequivocabile. Le giornate sono spesso bellissime e durante il giorno il sole scalda pure troppo. La mattina e la sera fa piu' fresco ma i termosifoni sono ormai un optional poco utile e sensato.
Con Anna stiamo programmando la stagione agricola. Abbiamo attrezzato parte del nostro giardino ad uso coltivazione e lei ha pazientemente cominciato a seminare verdurame vario in vasetti. Io ho iniziato a vangare l'ampio tratto scelto, ma l'impresa e' ardua e la terra dura e bassa. Manca ancora qualche strumento piu' robusto, atto a contrastare un suolo con qualche pietra e indurito da anni di calpestio, ma abbiamo buone speranze.
Avevo pronosticato in altri tempi e luoghi una serena carriera di agricoltore a mio fratello Gianni, quando era andato a vivere sulle alture di Cogoleto; carriera che avrebbe certificato il suo definitivo invecchiamento e lo avrebbe consegnato ad un sereno tran tran verso dimore piu' stabili e tranquille. Invece temo che lo precedero'. Magari non nelle dimore eterne, ma in questa occupazione utile e pure divertente.
Questa e' una cosa che non avrei mai creduto di fare alcuni anni fa e nemmemo immaginato tanti anni fa. Ma omai sono tante le cose che mi stanno succendendo, impreviste e non ipotizzabili, che neppure le conto piu'. Me ne stupisco pero' e in fondo me ne rallegro, perche', come un bambino, gradisci le sorprese e scoprire cosa ci sia dentro.

martedì 18 settembre 2012

Adversus haereses - pensando a Antonio Socci..



Non leggo volentieri i polemisti. Mi danno l’impressione di essere come i vecchi giocattoli che, una volta caricati, agitano l’aria, finche’ non si esaurisce la spinta e la cordicella torna a posto. Spesso nel sentirli ho l’impressione che sarebbero capaci di difendere l’opposta tesi con la stessa foga e fors’anche maggior trasporto. Men che meno sopporto i polemisti cattolici, perche’ non amo quando la fede si riduce ad ideologia. Trovo bizzarro la contrapposizione tra un “noi” e un “loro”, come se fossimo in guerra, il contarsi per vedere quanti siamo noi e quanti loro.
Non amo la violenza verbale. Non capisco perche’ faccia meno problema e scandalo di quella fisica, quando sa far male e puo’ rovinare connotati ben piu’ importanti di quelli fisici. La amo ancor meno quando usata per difendere le posizioni di fede, “in nome di Dio”. Forse non avremo ancora compreso la portata della crocifissione di Cristo, nella sua dimensione di strada da seguire, di poverta’, di paradossale onnipotente debolezza. Ma certo possiamo dire che la croce ci impedisca  ogni forma di violenza, ogni crociata contro gli eretici, gli infedeli di ieri e di oggi.
Non mi piacciono questi tempi in cui la Chiesa sembra giocare di rimessa, passando il tempo chiusa nel fortino a contare i suoi, distribuendo pettorine perche’ non si confondano con gli altri. Dove ci si  sorveglia l’un l’altro per saggiare la fede e la fedelta’ al Papa, giocando a chi e’ piu’ cattolico, come fanno tra gli ultras, dove c’e’ sempre qualcuno “piu’ tifoso” degli altri, perche’, che’ so,  canta in curva o era presente quando abbiano perso 3-0 a Reggio Calabria. Non capisco la morale dalla lista corta, che difende giustamente la vita prima della nascita o della morte, ma non sembra essere ugualmente coraggiosa con la vita che sta in mezzo, con tutte le sue fatiche, speranze e seti: con le attese dei nuovi Zaccheo, delle Maddalene, dei tanti pubblicani e peccatori che condividono i nostri stessi sentieri, i posti di lavoro e le nostre vite.
Una volta ero a messa a Bardino Nuovo, da mia suocera, e il prete nella predica ha detto: “perche’ Gesu’ non e’ venuto solo per noi, ma anche per i peccatori, per i lontani”. Tu ascolti, ti guardi intorno, attendi inutilmente una correzione che non arriva o qualcuno che si alzi e vada a sputargli in faccia. Allora ridi, come uno scemo e capisci che ci siamo persi quando abbiamo cominciato a crederci “giusti”, a prendere le distanze dall’umanita’ vera e fragile, dai quei peccatori che nella versione evangelica (non bardiniana), sono gli unici per cui Gesu’ e’ venuto.
Trovo poco digeribile Socci, sempre sopra le righe e sempre contrapposto, spesso livoroso e violento. Ultimamente ha affermato che il clamore e il pubblico tributo rivolto al cardinal Martini, fosse sospetto e in qualche maniera degno di chi nella vita ha sempre strizzato l’occhio alla gloria mondana, a discapito della fedelta’ al vangelo. Obiezione interessante, ma che andrebbe usata sempre, magari, che so, anche in occasione dei funerali di Giovanni Paolo II o Madre Teresa di Calcutta.
Trovo stucchevole poi questo continuo suo accenno al “deposito della fede”, al fondamentale insieme dei dogmi e dei precetti che ogni cristiano deve osservare. Siamo passati dalla “buona notizia”, una cosa bella da dire agli altri, con l’urgenza e la passione di cosa importante, al deposito, una stanza di cosa ferme, che teniamo da qualche parte, come le cose della nonna in solaio o i quaderni delle elementari. Roba che e’ nostra, ma che prende polvere in un posto lontano dagli occhi e dal cuore, altrove rispetto a dove viviamo tutti I giorni, dalla cucina o dallo stanza dove stiamo coi figli.
Una volta si pensava che la fede nascesse dall’incontro col Dio vivente, ora l’importante e’ il museo, dove tutto deve essere fisso, congelato, immobile, in ultima istanza, morto.
Lascio quindi volentieri a Socci il suo berretto da custode e pure plaudo la grinta con cui scatta a redarguire chi si avvicina troppo ai quadri o sporca I tappeti. Gli lascio pure la passione con cui parla di Medjugorie, di padre Pio, della Sindone: tutte cose carucce ma altro rispetto alla fede, aiuti (per chi li vuole) marginali, rispetto alla centralita’ dei vangeli.
In ogni caso mi autodenuncio alla inquisizione socciana. Penso poco ai dogmi della mia fede, rifletto raramente sull’infallibilita’ del Papa, elemento che trovo poco centrale nel mio essere credente. Non festeggio il “nome di Maria”, anzi nemmeno ricordo quando e perche’ si celebri. Non leggo mai i messaggi di Medjugorje; anzi li trovo tutti uguali e ripetitivi e, sotto sotto, mi chiedo perche’ abbia fatto tutta sta strada per dire cose cosi’ generali, disincarnate e in fondo noiose.
Sono un insensibile e ho poca fede. Pero’ talvolta mi risuonano dentro le parole del vangelo, quasi sempre le trovo scomode e talvolta riesco a trovarne significati nuovi e stupendi, man mano che cresco e imparo cose nuove rispetto al mistero che e’ la vita. Mi sento inadeguato e troppo incline al compromesso, per poter essere violento con chi la pensa diversamente da me o la mia fede. Cerco, ce la metto, magari non tutta, ma quanto riesco.
Pero’ non mi chiudo nel fortino per paura della contaminazione o il timore di scoprire altre verita’ o sentire storie diverse, eretiche, rispetto alla mia. Non faccio crociate, ma a chi chiede, racconto, e dico le cose in cui credo e le poche che riesco pure a vivere.
Non aggiungo la voce “cattolico” ne’ al mio nome ne’ alla mia professione, come fa il giornalista cattolico Socci o il politico cattolico Casini: la fede e’ cosa a cui dovrei appartenere ma che non mi appartiene. Pero’ non vendo sottoprodotti di fede, attaccandoci specificazioni logistiche, come sinistra o destra.
Una volta sono stato a un concerto di Caparezza, in un centro sociale sulle alture genovesi. L’ambiente era tipico, con tanto di canne e banchetti con libercoli inneggianti alla bestemmia. Prima di Caparezza c’e’ stato lo show degli “Assalti frontali”, un duo romano di cinquantenni che facevano musica rap, saltando come grilli e inneggiando alla rivoluzione. Terribile. Alle 23.30 inizia caparezza, fantastico e intelligente come sempre. Tra la mezza e l’una fa una pausa, prende il microfono e accenna ai tempi moderni, alla manzanza di guide certe e introduce sul palco un prete, tale Don Vitaliano, famoso, a quei tempi, per essere vicino ai no global. Caparezza, facendo teatrino, chiede lumi al don sul passo in cui Gesu’ dice di porgere l’altra guancia e gli lascia microfono. Il prete comincia a spiegare “che esser colpiti sulla sinistra era la punizione degli schiavi, per cui Gesu’ dice: se mi vuoi menare, fallo e non reagisco, ma colpiscimi sulla destra, come un uomo libero. Non negare la mia dignita’ di essere umano”. Insomma una cosa pulita e carina, pure con un certo senso. Mentre parlava io mi guardavo intorno, osservando questa assemblea, composta da fumati, bestemmiatori, ubriachi persi, all’una di notte, in un silenzio assoluto e surreale,che ascoltava un prete che era li’ per incontrarli e parlar loro.
Ora non so se questo Don vitaliano abbia dei problemi con il “deposito della fede”, ma tanto di capello. Almeno lui ci va, ci prova ad uscire dal fortino, ci perde del tempo, non li da per persi o fa troppo caso alla pettorina di colore diverso e opposto.
In attesa che arrivi l’apocalisse e qualcuno di piu’ autorevole di Socci dia le giuste pettorine, vi lascio con una canzone di Caparezza. Sara’ pure un lontano, senzadio e pure spettinato, ma il Vangelo lo conosce meglio di me
https://www.youtube.com/watch?v=1sBSZ0CpZs8

martedì 11 settembre 2012

Diario dell’australiano Data australe 11 settembre 2012



Fare i lavori domestici non e’ male. Ci sono elementi di noia e routine, ma quelli li trovi in qualsiasi professione autonoma o dipendente che sia. Pur non godendo di grande fama, ha livelli di stress molto bassi e permette una buona organizzazione del tempo in totale autonomia. Non hai colleghi stressanti, anzi non ne hai proprio e il problema non e’ quello di gestire la socializzazione, ma semmai sopravvivere alla solitudine.
Poi i lavori domestici sono tutti piu’ o meno interessanti. Far da mangiare puo’ essere creativo, stendere aiuta la riflessione e permette alla mente di abbandonarsi alla fantasia. Di solito se metti bene a fuoco i clienti, i beneficiari del tuo lavoro, ti e’ piu’ facile trovare un senso a quello che fai e affrontare anche i lavori piu’ noiosi.
C’e’ pero’ un lavoro che incarna la sfiga della casalinga e della controparte maschile: fare la lavastoviglie. Nella quotodianita’ domestica e’ operazione tra le piu’ noiose, priva di soddisfazioni e lesiva dell’autostima personale.
La lavapiatti e’ autoritaria, tirannica. Puoi anche non fare lavatrici per giorni, fregartene dei vestiti per terra (che fanno cosi’ calore e colore), sbarrare le porte della stanze straripanti di roba sporca, ma non puoi lasciare la cucina in condizioni pietose per piu’ di un giorno.
La cucina in disordine e’ la quintessenza dello squallore, l’emblema di una casa dove regna il caos e l’armonia e’ defunta. I piatti sporchi di unto o il bicchiere in precario equilibrio nel lavandino deprimono, minano nel profondo lo star bene insieme. Senza parlare del fatto che quel qualcuno che potrebbe sempre arrivare, senza arrivare mai, potrebbe finalmente farsi vivo, finendo per vedere la cucina in tal penoso stato.
Nei film noir, la cucina dello spacciatore appena ucciso e’ sempre un cumulo di piatti unti, tovaglioli sporchi e pentole incrostrate. Non inquadrano mai la lavanderia piena di vestiti da lavare, perche’ e’ la cucina la cartina tornasole di una umanita’ realizzata o di un esistenza sull’orlo del suicidio.
Quindi volente o nolente con la lavapiatti devi confrontarti, quotidianamente esercitarti nell’umiliante arte del carico e dello scarico, anche perche’ l’onnipresenza del demoniaco elettrodomestico ha progressivamente rimpicciolito i lavandini, tanto da renderli incapaci a contenere stoviglie e pentolame.
La lavastoviglie e’ un padre severo che non nota i successi, ma e’ pronto al rimprovero alla prima defaillance. Se tutto esce pulito e lindo, nessuno ti fa I complimenti, lodando il luccichio delle pentole o esaltando la brillantezza dei bicchieri. Se invece recuperi dall’antro un piatto ancora lercio o una forchetta incrostata, ecco che scattano gli sguardi, i sospiri, se non l’aperto rimprovero. Perche’ sei un incapace, manco buono a fare la lavapiatti, notoriamente a prova di imbecille,  e soprattutto ti abbiano gia’ spiegato piu’ e piu’ volte l’incastro perfetto, la collocazione ideale, la tattica per il miglior risultato.
Perche’ poi come per la Nazionale di calcio, ognuno si sente stratega, capace come nessun altro di caricare i maledetti carrellini, maestro di una scienza esatta, capace di ottenere una grande performance e nel contempo coniugare risparmio energetico e amore per l’ecologia. Cosi’ mentre sei li’ che ti cimenti con la gia’ di per se’ noiosa operazione di caricare la bestia, senti gli altrui sguardi, densi di commisserazione e di condanna, rispetto al bicchiere appena incastrato o il piatto collocato dove “non verra’ mai pulito”. Come gli anziani che tutto il giorno studiano e commentano i cantieri sulla pubblica via, cosi’ ogni adulto getta un occhio sulla erigenda lavastoviglie, eleborando come a tetris, strategie elternative, incastri magari piu’ arditi, ma certamente piu’ capaci e intelligenti
Ma la lavastoviglie non e’ una scienza esatta. Come quei giocatori di bocce, sempre pronti ad incolpare un rametto, un avvallamento nascosto per una giocata fatta male, di fornte ad una lavapiatti mal lavata si incolpa la pastiglia scadente, l’augello chiuso o il maledetto programma ecologico, che “rispettera’ anche la natura, ma se poi non lava..” Commenti inutili, ma necessari per non accettare la Waterloo di ogni nostra convinzione, della presunzione di averci capito qualcosa, in questo marchingegno perverso e privo di razionalita’.
E’ una scuola di umiliazione quotidiana, con quei soffitti bassi, dove nulla entra e tutto si incastra, con quegli spazietti che ti illudi possano contenere ancora  un altro bicchiere e dove le tue gigantesche mani urtano ogni cosa e distruggono l’ordine appena costituito. Per non parlare dei cucchiani che fanno a gara a tuffarsi fuori dal contenitore, direttamente la’ dove non lo puoi raggiungerli con le dita o dei carrelli che a fine corsa sembrano precipitare a terra con tutto il loro contenuto.  Quante docce sgradite o cucine inondate dobbiamo patire per imparare definitivamente che i  bicchieri devono essere comletamente vuoti prima di capovolgerli nell’odiosa trappola?
In fondo poi la lavastoviglie e’ inutile. Ci sono tazze o bicchieri che hanno li’ la residenza, vi stazionano sempre, a prescindere da cosa hai cotto o mangiato. Ogni santo giorno metti dentro e fuori la stessa roba, in un rito in cui col senso smarrisci anche te stesso.  I soliti gesti, la solita roba, il solito dover rifare tutto perche’ la pentola tocca, va ad intralciare le pale, quelle maledette che hanno pure gli augelli intasati, oziose e girovaghe da abbattare come i mulini di Don Chisciotte. Una lotta contro gli elementi, un batter l’aria correndo sul posto, perche’ quando incastri tutto, c’e’ sempre qualcosa rimasto fuori, magari proprio quel contenitore di  plastica, cosi’ difficile da lavare a mano, oppure quella pentola che puzza di pesce, un classico della cucina trasandata, il marchio del genitore degenere e della famiglia allo sbando.
Molto piu’ esaltante fare la spesa, specie qui dove fai scoperte sempre nuove e bizarre. Il mio angolo preferito e’ quello del mark down, dove trovi a poco prezzo cose dalla prossima scadenza. Daniel non capisce perche’ dobbiamo sempre comprare cose marce, ma io vado lo stesso sfidando il suo sguardo di rimprovero, sempre curioso di quello che posso trovare e con l’entusiasmo di chi sta per fare qualche affarone. Non di rado imparo cose nuove rispetto alle usanze dell’australe popolo e della sue abitudini culinarie. Recentemente ho trovato questo prodotto che mi ha fatto pure sorridere.
La lavapiatti invece non mi fa mai sorridere..

Aggiornamento della situazione
Ho cominciato il servizio alla canteen della scuola dei due pupi. Una specie di mensa interna che al giovedi’ e venerdi’ puo’ fornire il pranzo ai bambini che lo desiderano. Lo staff era composto da un cuoco, due altre mamme e il sottoscritto. Il locale e’ angusto e tutti sono sovrappeso per cui occorre limitare i movimenti al minimo. Pero’ parlano, in continuazione chiacchierano e io ascolto. Non capisco cosa dicano ma sento, capto delle parole che mi sembra di aver gia’ incontrato e le ripeto in silenzio sperando che la loro eco mi si pianti nel cervello o trovi uno spazio in cui mettere radici.
Mi sto convincendo che sia tutto una questione di spazio, che con l’eta’ abbiamo raggiunto il troppo pieno e quello che dimentichiamo sia solo quello che deborda, esce fuori perche’ oltre lo stivabile. Intorno ai quaranta cominciamo ad averne viste e sentite troppe per pensare di poter incamerare pure l’intero Oxford English Dictionary o destreggiarsi con la grammatica inglese. Andrebbe gia’ molto bene se l’avessimo piena di cose interessanti, di un vissuto degno del vivere stesso. Che dramma sarebbe averla zeppa di cretinate o di materiale talmente confuso da essere inutilizzabile.
Non so bene di cosa sia piena la mia, ma so che vorrei poter cancellare qualche record per far spazio al tanto che ho trovato qui e alle cose che devo ancora vedere. La Maru, il nonno, Federico e i bimbi sono stati sulla costa sud per trovare un posto dove andare in vacanza a dicembre, quando vengono le nonne. Hanno visto una balena col piccolo, un drago di Komodo e accarezzato dei canguri, per nulla intimoriti dall’uomo. Io e la Anna siamo rimasti a Canberra a studiare. I bimbi erano entusiasti. Io pure. pur essendo il loro troppo pieno molto molto lontano, mi sembra un bel ricordo da stivare, uno di quelli che vale la pena avere e gelosamente conservare.